Essere infermiere e donna rappresenta un valore aggiunto. Soprattutto quando si tratta di formare altre donne in un Paese in cui l’accesso alla scolarità è limitato. «Con l’istruzione scegli, ti qualifichi. Ti colori. È come se tra migliaia di burka azzurri ne comparisse uno rosso, uno arancione. Li noti, e ti accorgi che esistono». Spiega così Paola Stillo, la sua esperienza in Afghanistan, dove nel 2003, ha gestito un centro di maternità insieme a una ONG. Formando le ragazze del posto.
Un’esperienza scelta da OPI Firenze Pistoia per raccontare la “sua” Festa della Donna. Infermiera pediatrica e coordinatrice del pronto soccorso del Meyer di Firenze, oltre che membro della commissione pediatrica di Opi Firenze – Pistoia, Paola Stillo è stata per cinque anni nel Paese Mediorientale, subito dopo la guerra. «Il Paese veniva fuori da un periodo buio – spiega – con la dominazione talebana le donne erano segregate, la popolazione femminile non era mai andata a scuola»
Di cosa trattava il progetto che hai seguito?
«Con una Ong abbiamo aperto un centro di maternità. La mortalità neonatale e infantile era altissima, correlata alla mortalità materna. Io e una collega ostetrica ci siamo trovate a formare un gruppo di 16 ragazze che facessero assistenza alle donne in gravidanza e al bambino al momento della nascita. Non potevamo formare infermiere, perché non c’erano scuole infermieristiche, e il personale doveva essere tutto al femminile: per l’Islam, le donne possono essere visitate solo da donne. Abbiamo selezionato alcune ragazze e per un anno e mezzo le abbiamo formate con lezioni in aula lavorando e fianco a fianco, per dare loro rudimenti di base di assistenza infermieristica e ostetrica».
Quali sono state le difficoltà?
«Le ragazze venivano da piccoli villaggi e sapevano a malapena leggere e scrivere. Le abbiamo viste crescere, in una sorta di emancipazione personale ma non senza difficoltà. Mi sono spesso chiesta: quanto è giusto raccontare loro del nostro mondo? Non volevo dare troppe informazioni per non far capire quanto ‘mancava’ loro rispetto a noi. Abbiamo scelto un percorso che permettesse alle ragazze un’emancipazione personale, in linea con il loro background».
Cosa ha significato essere una donna che aiuta un’altra donna a crescere?
«Essere donne per noi ha significato poter entrare in sintonia l’una con l’altra. Prima che essere infermiere e ostetriche siamo state ‘donne’ con i segreti, le complicità che accomunano il sesso femminile. Attraverso questo lavoro siamo riuscite ad avvicinarci e a impostare un programma formativo difficile. Ma ce l’abbiamo fatta. L’ospedale faceva 40 parti al mese: oggi ne fa 1200 al mese, con una mortalità bassissima».
Come hanno risposto le ragazze?
«Durante la selezione erano entusiaste: per loro significava libertà. Parlare di ostetricia e ginecologia invece era difficile: argomenti per noi normali come il ciclo mestruale, la gravidanza, la pianificazione familiare, per loro erano tabù. Fino ad allora il massimo della formazione era stato sedere in classe a studiare il Corano. Arrossivano. Abbiamo dovuto lavorare tanto, inventando storie e stratagemmi per far passare messaggi. E poi, pian piano, abbiamo insegnato loro a entrare in sala, gestire parti, fare family planning. Alla fine erano persone diverse, più sicure di sé»
Le hai viste cambiare?
«Sono ancora in contatto con diverse di loro. E il fatto che sappiano usare internet, Facebook è già una conquista enorme. Da una scuola semplice e poco riconosciuta, le 16 ragazze che abbiamo formato hanno avviato un loro percorso. Qualcuna di loro si è sposata e “ha scelto” di rimare a casa a seguire i bimbi, altre invece hanno proseguito la formazione. Una ha frequentato l’Università a Kabul ed è diventata ginecologa. È sposata, quindi significa che il marito le ha permesso di fare questo lavoro. Una è diventata ecografista; quattro frequentano la scuola per ostetrica. E hanno fatto conoscere l’ospedale alle donne che vivono sul territorio».
E le pazienti? Quanto è stato importante per loro?
«Hanno potuto essere riconosciute. Poter venire in ospedale per partorire, potersi confrontare con personale femminile per essere assiste, ascoltate e curate è stata emancipazione. Noi andavamo nei villaggi per fare informazione e già la clinica prenatale era presa d’assalto: fino ad allora le donne non potevano essere visitate, rimanevano dietro a una cortina al di là della quale un medico faceva loro delle domande. Per loro ha significato poter essere seguite, ascoltate, curate, avere accesso alla contraccezione, partorire in sicurezza. Il fatto che oggi tante donne vadano a partorire in ospedale vuol dire che messaggio è passato».
Cosa ha lasciato invece a te questa esperienza?
«Per assurdo sono tornata in Italia più donna di prima. È stata un’esperienza incredibile che mi ha fatto apprezzare ancora di più quello che avevo qua. Fatta eccezione per casi limite, oggi in Italia una donna può dirsi libera: può scegliere cosa studiare, con chi uscire, se sposarsi; può avere una vita sessuale consapevole. Può confrontarsi con il mondo femminile e maschile. Questo ti porta a pensare che quello che hai è frutto delle conquiste di tante donne prima di te: noi viviamo di rendita. Diamo per scontato che la nostra condizione di oggi è frutto delle lotte di ieri. E oggi tante donne nel mondo stanno combattendo la nostra ‘lotta di ieri’».
Che ruolo ha per te oggi l’istruzione in questa lotta?
«Le donne lottano per essere riconosciute come esseri esistenti, con una voce. Essere donna ed esistere: questa, per alcune donne, è già una forma di emancipazione grandissima che può avvenire solo attraverso l’istruzione. Con l’istruzione scegli, ti qualifichi. Ti colori. È come se tra migliaia di burka azzurri ne comparisse uno rosso, uno arancione. Li noti, e ti accorgi che esistono».
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