«Nell’infermieristica, l’86% dei professionisti è donna, in Toscana si sfiora il 90%». Lo ha ricordato, in occasione della Giornata dedicata al Giuramento dei nuovi infermieri il presidente dell’Ordine delle professioni infermieristiche interprovinciale Firenze Pistoia, Danilo Massai. Una professione al femminile quindi, ma non priva di difficoltà. Per questo, in occasione di marzo, mese della donna, OPI Firenze Pistoia ha voluto accendere i riflettori sulle donne in corsia.
Donne che spesso faticano a conciliare la propria vita professionale con la famiglia e la cura dei figli, ancora oggi affidata in maniera preponderante alle madri. E che spesso ricoprono, più degli uomini, la figura di caregiver. Un “compito” difficile da armonizzare con una vita organizzata su turni rigidi, o su un lavoro spesso lontano da casa, con scarse speranze di avvicinarsi. Ne abbiamo parlato con Sabrina Leto, infermiera al pronto soccorso dell’ospedale di Empoli e rappresentante sindacale della Cgil Toscana Centro.
«Vorrei partire da un presupposto, dalla scelta di essere infermiere – spiega Sabrina Leto -. Questo lavoro sicuramente lo scegli perché ti piace, non lo fai perché non sai che lavoro fare. È frutto di una scelta consapevole: sai che comunque nel corso della vita dovrai fare alcune rinunce. È un lavoro a contatto con le persone e con la malattia, sai che fai una scelta importante».
Quali sono le rinunce e le difficoltà a cui si trova di fronte un’infermiera?
«Nel corso della vita, abbiamo eventi personali che cambiano il nostro assetto, uno su tutti è la maternità. Nel mondo infermieristico, spesso, questa fase della donna viene vista dai colleghi come un ostacolo. Se in reparto manca una figura, vista la generale carenza di personale, questo “pesa” sugli altri membri della squadra. Quindi desiderare un figlio può essere visto come qualcosa di negativo, perché indirettamente grava sugli altri».
Ma non c’è solo la questione maternità…
«Non tutte le infermiere sono madri ma spesso sono figlie di genitori che necessitano di assistenza. I genitori, diventano anziani e doversi prendere cura a casa dei propri familiari è una cosa sempre più frequente. Non essendoci un turnover adeguato, l’età media degli infermieri è di 45/53 anni: è fisiologico, le energie diminuiscono. Poi arrivi a casa e hai un altro carico di lavoro da sostenere. Si è sottoposti a una continua sollecitazione».
Il conflitto tra lavoro e famiglia cosa può provocare?
«Facciamo un lavoro in cui non possiamo esprimere le nostre emozioni, ma dobbiamo farci carico della persona e della sua famiglia. E poi, a casa, della nostra. Tutto questo provoca nel corso degli anni uno stress psicofisico non indifferente. Con l’avanzare dell’età poi siamo più stanchi, più fragili. E all’interno delle organizzazioni di lavoro questo stress psicofisico non viene preso in dovuta considerazione. Non ci sono strumenti per lavorare su questo stress: e questo può portare a situazioni di burnout».
È possibile chiedere il part time? Cosa implica?
«Spesso una donna con figli o con genitori anziani è costretta a richiedere di lavorare meno, attraverso il part time, o di avvicinarsi a casa, ma non sempre questo è possibile. Queste richieste spesso sono viste dalle organizzazioni come un ostacolo. C’è il pregiudizio che si voglio lavorare meno. Ma se si vanno a verificare le situazioni per cui una infermiera chiede il part time, nel 99% dei casi è soprattutto per il grosso carico familiare che ha».
Il part time è una soluzione che va bene per tutti secondo lei?
«A causa della crisi economica degli ultimi anni spesso le famiglie sono monoreddito e le donne che non possono accedere a part time per questo motivo si trovano ad accumulare uno stress che non porta positività sul lavoro. Non le mette in condizione di dare al paziente quello di cui ha bisogno e che è in diritto di avere».
Parlava di avvicinarsi a casa. La mobilità è sempre semplice o a volte diventa un problema?
«Spesso il lavoro non è vicino casa e l’organizzazione dovrebbe tenerne conto, cercando di avvicinare la lavoratrice infermiera al proprio domicilio. Il problema è nazionale, ci sono persone che lavorano in altre regioni costrette a dover ricorrere al licenziamento. Se è possibile essere più tranquilli e sereni in famiglia, questo si riflette anche sul luogo di lavoro e sul rapporto con i pazienti».
Secondo lei c’è troppa rigidità nell’organizzazione del lavoro?
«Essere infermiera e donna implica una responsabilità maggiore dei colleghi uomini. Certo, le situazioni familiari sono tante e diverse, però nella maggioranza dei casi per le donne è più difficile e faticoso conciliare lavoro e vita personale. Ed esempio, nei turni in h24 dove le notti in alcuni casi sono lunghe quasi 12 ore. tante mamme devono tornare a casa, vestire i bambini e portarli a scuola. Poi dormono, li riprendono da scuola e ripartono. Ma anche nei turni in h12 (nei distretti o nell’assistenza domiciliare) sarebbe opportuno offrire maggiore flessibilità».
Qual è l’auspicio?
«Le organizzazioni lavorative dovrebbero facilitare la donna lavoratrice, migliorare l’organizzazione in questo senso con orari un po’ più flessibili. E cercare di rendere più efficienti i modelli organizzativi, senza vedere negli istituti come il part time e la mobilità un ostacolo, ma una forma di miglioramento della qualità di assistenza e di vita. Anche questa fase di emergenza a causa del nuovo Coronavirus, con le scuole chiuse, ha evidenziato il problema. Sarebbe opportuno fare una riflessione anche su questa situazione emergenziale per avviare cambiamenti. E migliorare la qualità di vita e dei servizi».
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