Continua il lavoro dei “salvatori di semi”: recuperati due dell’isola del Giglio e due dell’Amiata
Si potrà ancora assaggiare una polenta di granturco di Castell’Azzara, una zuppa di “Cavolo Torso” del Giglio, ma anche preparare una conserva di “Pomodori di scasso” o un piatto di “fagioli borlotti del minatore”. Quattro varietà a rischio estinzione oggi ufficialmente recuperate, scongiurando il pericolo di vederle perdute per sempre.
Al Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano che ha portato avanti un progetto finanziato con il supporto dell’Università di Pisa, con l’aiuto e l’interessamento del Circolo Culturale Gigliese, va il merito di aver recuperato il Cavolo Torso e il Pomodoro di scasso sull’Isola del Giglio. La Comunità del cibo e dell’agrobiodiversità dell’Amiata, grazie a un progetto finanziato realizzato con l’Università di Pisa, ha salvato il “fagiolo borlotto del minatore” e il “granturco di Castell’Azzara”. Ora sono iscritti nel Repertorio regionale delle varietà a rischio estinzione e andranno “custoditi”.
Saccardi: «recuperare le vecchie specie fondamentale per la conservazione di un patrimonio genetico prezioso dal punto di vista agronomico, alimentare e culturale»
«L’attività di recupero delle vecchie e dimenticate specie nostrane di interesse agricolo – ha detto Stefania Saccardi vicepresidente della Regione Toscana e assessora all’agroalimentare – diventa fondamentale per la conservazione di un patrimonio genetico unico e prezioso dal punto di vista agronomico, alimentare e culturale. Sosteniamo le comunità del cibo e le associazioni che si prendono in carico di salvarlo dall’estinzione nell’ottica di una valorizzazione dell’agrobiodiversità e nell’incremento della ricerca per aumentare la qualità dei frutti, ridurre l’impiego dei prodotti chimici in frutticoltura, contenere i costi di produzione e tutelare la biodiversità vegetale. Con la perdita dei semi non solo si perdono varietà ma si perde una fetta della nostra storia e della nostra identità culturale».
Cavolo torso un’antica specialità dell’Isola del Giglio
Il cavolo torso è coltivato in piccoli orti familiari dell’Isola del Giglio. Sembra però che gli agricoltori dell’isola coltivassero questa varietà da “più di quattro generazioni, oltre che negli orti della località del Mortoleto anche in molti altri luoghi dell’isola, nei quali i fattori pedologici conferiscono al terreno le caratteristiche colturali adatte”. Il rischio di estinzione è alto sia per il numero dei coltivatori sia per l’età che hanno. Al rischio contribuisce anche la limitata dimensione delle superfici coltivate e l’assenza di un sistema di conservazione in situ ed ex situ che può da oggi partire grazie all’iscrizione al Repertorio regionale della LR 64/04; un primo passo verso una vera valorizzazione del prodotto.
Pomodoro di scasso: il frutto rosso coltivato in vigna
Sul pomodoro di scasso si racconta che un sacerdote gigliese del ‘700, Domenico Aldi, soprannominato Fontana, dell’arcipretura di San Pietro e Paolo di Giglio Castello, avesse la passione di salare le acciughe e conservarle in giarrette, secondo la tradizione isolana. Una volta all’anno andava a Firenze in un convento di frati a cui faceva omaggio delle sue acciughe e riceveva in cambio prodotti della campagna toscana. Una volta i frati gli regalarono dei semi di pomodoro che non avevano necessità di essere annaffiati purché fossero seminati in terreno ben dissodato: una caratteristica molto favorevole del terreno agrario del Giglio, isola molto siccitosa. Così si pensò di piantare i semi nelle vigne che godono di una zappatura profonda che la Giglio è chiamata “scasso” . Nacquero così i “Pomodori di scasso” o “Pomodori di Fontana”.
Da allora la coltivazione dei pomodori introdotti da don Domenico Aldi si fa nelle vigne, in particolare quando queste vengono periodicamente zappate più a fondo. I frutti sono grossi, polilobati di color rosso intenso, utilizzati soprattutto per la preparazione di conserve. La varietà è stata fino ad oggi coltivata da alcuni agricoltori dell’isola, che hanno mantenuto e conservato nel tempo questa tipicità locale. Questo tipo di pomodoro non è solo molto adatto per fare salse, ma anche per “strusciarlo sul pane” o fare i pomodori secchi.
Dall’Amiata, il fagiolo borlotto del minatore
La Comunità del Cibo dell’Amiata, grazie al progetto l’Università di Pisa, ha potuto accertare il legame del fagiolo borlotto del minatore con il territorio amiatino, conservato e da sempre coltivato da un agricoltore di Castell’Azzara, Alberto Lazzeri – oggi deceduto – e dalla sua famiglia. Grazie alla costanza della famiglia Lazzeri, che lo ha riprodotto e custodito nel tempo, alcuni agricoltori della Comunità del Cibo dell’Amiata, hanno ripreso a coltivare questo fagiolo e ad apprezzarne sempre di più le caratteristiche qualitative.
Il fagiolo borlotto del minatore si coltivava nei “granturcai” in consociazione con il granturco locale che fungeva da tutore alla pianta di fagiolo; la raccolta si faceva a mano. Si gusta dopo opportuno ammollo e lessatura. Tipicamente utilizzato in minestre e zuppe può essere consumato anche in bianco condito con sale, pepe, olio e aceto. Come tutti i fagioli borlotti, anche questo è particolarmente indicato nelle zuppe ed impiegato in un tipico piatto della tradizione locale chiamato “minestra con i ceciarelli” realizzati con l’impasto di acqua e farina di grano duro.
Granturco di Castell’Azzara, una varietà autoctona tramandata nel tempo
Per il granturco di Castell’Azzara, dalle prime informazioni avute dagli agricoltori e dai vari soggetti interessati alla messa in sicurezza della varietà emerge che, insieme alla castagna, è stato fin dalla metà del 1700 la principale fonte di sostentamento degli abitanti dell’area dell’Amiata. Poi, dalla prima metà del 1900 fu quasi completamente sostituito da altri cereali, principalmente dal grano. La coltivazione del granturco si interruppe quasi del tutto a seguito anche della dismissione dell’attività mineraria con conseguente spopolamento delle aree montane e sub-montane del territorio amiatino.
Il mantenimento fino ad oggi dei semi di questa varietà autoctona è merito della tenacia e lungimiranza di un agricoltore di Castell’Azzara, Silvio Papalini. Con il granturco di Castell’Azzara si fa la polenta. Ai tempi, si tagliava a fette, poi passate sulla piastra della stufa economica per renderle croccanti senza friggerle, accompagnate con formaggio. Oppure si faceva la semplice polenta accompagnata ai fegatelli di maiale.
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