Un viaggio guidato da Miresa Turci nell’arte di tre grandi romagnoli
Una Romagna “morbida”. È quella che accomuna Giulio Turci (1917-1978), Tonino Guerra (1920-2012) e Federico Fellini (1920-1993), connessi, oltre che da un geniale spirito artistico, anche da un legame indissolubile con la propria terra. Quella Romagna opulenta e feconda ma allo stesso tempo malinconica con le sue spiagge rese deserte da un inverno che di anno in anno rincorre i colori, il vocìo, il chiassoso ‘gioco’ estivo.
Del legame tra Giulio Turci, Tonino Guerra – le cui abitazioni a Santarcangelo di Romagna e a Pennabilli fanno parte dell’Associazione Nazionale Case della Memoria – e Federico Fellini, si è più volte dibattuto alla ricerca, nelle loro opere, dell’anima di una Romagna che – forse – non c’è più, evocata da alcuni temi e atmosfere che oggi definiremmo “felliniani”. Ma che il critico d’arte e storico di estetica Filippo Enrico Gasparrini volle ricondurre, già nel 1980, al pittore santarcangiolese Turci, riconoscendo la presenza di elementi “turciani” nell’opera di Fellini.
Di arte, di legami, di Romagna abbiamo parlato con Miresa Turci, figlia di Giulio, provando a chiarire quali siano i punti di contatto e di distanza fra tre artisti diversissimi tra loro. Al primo posto c’è la Romagna. «Erano tutti e tre romagnoli – chiarisce subito la figlia dell’artista -. Sia Turci che Guerra sono nati a Sant’Arcangelo, Fellini invece era di Rimini. Giulio e Tonino hanno coltivato un rapporto di amicizia ed interesse reciproco, favorito anche dalle memorie di gioventù. Crescendo poi ognuno ha curato il proprio respiro poetico, dando vita a cammini artistici differenti e per certi versi antitetici».
Infatti il tempo, e la vita, seguono i loro percorsi, che conducono a mete diverse. «Giulio ha sempre amato conoscere nuovi luoghi e nuovi spazi ma tornava sempre, dopo i suoi tanti viaggi, in quella casa a Santarcangelo, nel borgo. Rifugiandosi nel suo nido fra i tetti, senza allontanarsi troppo dai profumi della casa, da un campanello che suona, segnale di un amico che lo viene a trovare. Un luogo raccolto, un rifugio anche per gli amici. E Tonino era uno di quelli: lui si trasferì a Roma e tornava in paese ogni tanto. E in quelle circostanze passava a trovare Giulio nel suo studio o gli telefonava».
E Fellini? «C’è una fotografia del 1972, scattata al Grand Hotel di Rimini, che ritrae un dipinto di Giulio del 1971 nelle mani di Tonino Guerra e Federico Fellini. Al quadro, che fu consegnato a Federico da Tonino, fa seguito una lettera di ringraziamento che il regista invia a Giulio in cui lo ringrazia e si complimenta per la “creatività, che continui ad esprimersi così felicemente”». Siamo nel backstage di Amarcord che sarebbe uscito nel 1973, con la sceneggiatura di Tonino Guerra. Un racconto memorabile dei luoghi, dello spirito e del carattere della Romagna e della sua gente. Eccoli qui riuniti, idealmente, Giulio, Tonino e Federico. Dall’arte, dalla Romagna, dall’amicizia.
«Il critico d’arte Filippo Enrico Gasparrini è stato il primo ad affermare che ci sono elementi “turciani” in Fellini – racconta Miresa Turci -. E ci sono elementi che s’intrecciano nella produzione artistica di Giulio, Tonino e Federico. In “Mare d’inverno”, un disegno del ’52, è ritratto il Grand Hotel di Rimini d’inverno con le due pescivendole. Già si intravedono gli elementi che costituiscono la poetica di Turci: il bambino con l’aquilone, il pallonaro in fondo. Quindi è possibile che Giulio sia stato d’ispirazione per Tonino e Federico. Del resto l’arte funziona così: nessuno nasce senza una storia, che riceve e a sua volta consegna».
Se dovesse trovare un comune denominatore nel linguaggio di Turci, Guerra e Fellini, quale sarebbe? «Probabilmente l’aspetto ludico. Giulio non era tragico nella sua espressione, così come Federico e Tonino. Il colore, le atmosfere non allontanano chi si sofferma ad osservare le sue opere ma vengono incontro. In tutti e tre ritrovo un’umanità che cerca di fare compagnia piuttosto che buttarsi via. Un’umanità che ognuno dei tre ha interpretato a suo modo. Una parte morbida di pensare la Romagna». Una Romagna quasi sospesa nel tempo, capace di emanare bellezza anche là dove, a un primo sguardo regna un’onirica assenza.
«Il mio cinema non è letterario né narrativo, è pittorico. La luce ne rappresenta l’essenza, lo stile, l’ideologia» affermava Fellini. Un tema ben chiaro anche a Turci già dai tempi delle estati al cinema Eden: suo padre, Giulio Turci senior, nel lontano 1916 aveva aperto a Santarcangelo il primo studio fotografico all’americana e nel 1920/21, il primo cinema, la sala Eden che diede grande impulso all’immaginario dell’intera comunità di un piccolo paese rurale di provincia. Lui, era solito ripetere: «ricordiamoci che il cinema non è cinema, non è film, ma movement picture, pittura in movimento». Cinema che è pittura, pittura che è cinema, due linguaggi che si incontrano e sovrappongono, impreziositi da intarsi di parole generati dalla maestria di Tonino Guerra. Come in un gioco di specchi, in cui nessuno sarebbe stato forse lo stesso senza l’altro. E per sempre stregato da quella Romagna rassicurante e straniante al tempo stesso.
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