Uno studio dell’Università di Firenze e del MUSE-Museo delle Scienze di Trento effetti di lungo periodo sulla fauna selvatica della frequentazione escursionistica negli ambienti montani
Negli ultimi decenni il territorio alpino è molto cambiato: l’abbandono delle pratiche di agricoltura e pastorizia, in molte aree, ha consentito una rigenerazione naturale delle foreste e molte specie di mammiferi hanno ritrovato nel bosco il loro habitat naturale.
Al contempo però, la frequentazione turistica di queste aree è aumentata, come in gran parte dei paesi ad alto reddito del mondo, creando un potenziale disturbo per gli animali selvatici.
Le aree naturali sono diventate destinazioni popolari per le attività ricreative all’aria aperta svolgendo un ruolo cruciale nel ricollegare le persone al mondo naturale in una società sempre più urbanizzata. Tuttavia, mentre la domanda di turismo naturalistico continua ad aumentare a livello globale, cresce anche la preoccupazione per i possibili effetti collaterali sulla biodiversità e in particolare sulla fauna selvatica. Come reagiscono gli animali selvatici a questa crescente presenza di esseri umani nei loro habitat? Ci sono effetti negativi nel lungo periodo? La ricerca del MUSE – Museo delle Scienze di Trento e dell’Università di Firenze pubblicata sulla prestigiosa rivista di sostenibilità ambientale Ambio fa luce su questo tema, dimostrando inoltre come un’attività di monitoraggio scientifico standardizzato sia fondamentale per misurare la sostenibilità ambientale delle attività umane e per raggiungere gli obiettivi di lotta alla crisi della biodiversità posti dall’ONU (“Crowdedmountains: Long-term effects of human outdoor recreation on a community of wildmammals monitored with systematic camera trapping“).
Lo studio – realizzato in convenzione col Servizio Faunistico della Provincia autonoma di Trento – ha utilizzato 60 fototrappole in modo sistematico – ogni estate – a partire dal 2015 in un’area delle Dolomiti del Trentino occidentale altamente frequentata da escursionisti, al fine di rilevare i passaggi di animali e persone e monitorare la fauna per studiarne le possibili risposte.
“I risultati delle analisi – spiega Marco Salvatori, dottorando dell’Università di Firenze in collaborazione con il MUSE e primo autore dello studio – ci mostrano che delle oltre 500 mila foto raccolte in 7 anni di ricerca (dal 2015 al 2022) il 70% ritrae persone e il tasso di passaggio umano di fronte alle fototrappole è stato 7 volte superiore a quello della specie selvatica più comune nell’area, la volpe, e addirittura 70 volte superiore a quello dell’orso, la specie che è risultata più raramente fotografata. Il passaggio delle persone inoltre non differisce fra le foto-trappole presenti all’interno del Parco Naturale Adamello-Brenta e quelle poste al di fuori, dimostrando, come prevedibile, una potenziale pressione anche all’interno dell’area protetta”.
Nonostante questa frequentazione umana molto intensa, tuttavia, le specie studiate hanno mostrato tendenze di presenza stabili e in alcuni casi anche in crescita, un segnale rassicurante per la loro conservazione.
Tutte le 8 specie considerate (orso, cervo, camoscio, capriolo, tasso, volpe, lepre e faina) hanno rivelato una chiara risposta comportamentale al disturbo provocato dal passaggio delle persone: nelle zone più frequentate diventano più notturne per diminuire la probabilità di incontrare persone e concentrano le loro attività di notte anche quando si trovano più vicino ai centri abitati. Non solo, le specie di maggiori dimensioni, come l’orso, il cervo e il camoscio, esibiscono anche una chiara tendenza a evitare di frequentare le zone in cui il passaggio umano è più intenso. Anche questo può essere considerato un segnale incoraggiante per la convivenza uomo-fauna selvatica.
I risultati dello studio dimostrano quindi come gli animali selvatici mettano in atto tutte le strategie a loro disposizione per minimizzare le probabilità di incontro con le persone. Questi comportamenti non sono però “gratuiti” per gli animali, ma costituiscono un potenziale costo in termini di maggiori difficoltà di movimento, una regolazione non ottimale della temperatura corporea, l’utilizzo di aree meno produttive in termini di risorse alimentari.
“In conclusione – afferma Francesco Rovero, docente di Ecologia dell’Università di Firenze e coordinatore dello studio – la tendenza a una maggiore notturnalità è una risposta comportamentale comune a molti mammiferi esposti alla presenza di grandi numeri di persone, come testimoniano anche diverse ricerche a livello internazionale. Se, da parte degli animali, l’impegno a evitare il contatto con gli esseri umani è notevole, ora sta anche a noi umani fare attenzione adottando, ad esempio, alcune misure per limitare l’accesso ad alcune aree dei parchi naturali nei periodi dell’anno più delicati per la fauna, una strategia già ampliamente applicata in molte parti del mondo”.
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