L’intervista a Niccolò Caciolli, da metà marzo a lavoro nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Prato
Niccolò Caciolli, classe 1991, è membro del gruppo di lavoro dedicato ai giovani creato da Opi Firenze-Pistoia. Dopo la laurea triennale all’università di Firenze (sede di Empoli) a dicembre 2014, ha lavorato per una RSA in Toscana per 10 mesi nel 2015. A fine 2015 si è poi trasferito in Inghilterra per quattro anni, lavorando i primi due anni in triage di chirurgia di emergenza, mentre fra il 2018 e il 2019 è stato uno dei coordinatori di reparto dell’ospedale ortopedico. Da qualche mese è tornato in Italia e dopo un’esperienza alla misericordia di San Casciano, Niccolò è uno degli infermieri che da metà marzo lotta in prima linea contro il Coronavirus, nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Prato.
Perché un giovane sceglie di fare l’infermiere?
«Io l’ho scelto perché ero affascinato da questo settore. Molti invece lo scelgono per la possibilità lavorativa che offre. Questo è infatti uno dei percorsi accademici in cui ti laurei e difficilmente sei disoccupato. C’è chi decide di fare l’infermiere per vocazione e chi magari si trova a infermieristica dopo aver provato anche altri test d’accesso, ma poi si appassiona e decide di restare. I tirocini inoltre permettono di vedere se piace. Insomma i motivi possono essere molti».
Ci sono iniziative o progetti dedicati ai più giovani? Se sì, quali?
«In questo momento no, ma ci sono molte idee. Il gruppo giovani di Opi Firenze – Pistoia aveva molte iniziative ma per via dell’emergenza si è bloccato tutto. Le iniziative comunque ci sono: certo bisognerebbe incentivarle invogliando i giovani a partecipare a progetti, soprattutto sulla formazione e informazione».
Quali sono le problematiche che più spesso un infermiere si trova ad affrontare?
«Io ho lavorato 4 anni e mezzo in Inghilterra. Poi 1 mese e mezzo fa iniziato in Italia. Nel nostro Paese, fino a pochi mesi fa, mancava il personale infermieristico: molti ospedali erano sotto al numero minimo per garantire un’assistenza adeguata ai pazienti e un adeguato riposo. Ora, con le assunzioni ci sarà un miglioramento sicuro».
Quali invece i momenti migliori e più soddisfacenti?
«Quando hai gratificazioni e forme di riconoscenza, da parte di pazienti e anche da parte di colleghi. Io lavoro in rianimazione Covid-19 a Prato. È successo che un paziente che era intubato da noi ci ha mandato un suo selfie nel quale si vedeva che stava tornando a casa. L’approccio dell’opinione pubblica su questa professione è migliorato e cambiato solo recentemente: prima dell’emergenza non era così, anzi».
Pensi che il percorso accademico italiano per diventare infermiere sia adeguato in misura di lezioni frontali e tirocini?
«Per come e quanto ho visto io sì. Quando sei tirocinante tante cose non le vedi e non le cogli. I dettagli li noti dopo, quando lavori. Paragonando la preparazione che hanno in Inghilterra e quella che danno in Italia, l’Italia molto avanti. Magari potrebbero essere fatti dei tirocini più lunghi e specifici tipo terapia intensiva o in altri reparti dove ci sono criticità e dove servirebbe una preparazione maggiore. L’Italia, comunque, ha un buon livello. Potrebbero magari essere riviste le modalità o le divisioni dei tempi fra tirocini, lezioni ed esami. Però comunque, in Toscana in particolare la situazione è positiva».
In questo periodo si è parlato molto di infermieri e del loro ruolo, qual è la tua esperienza in relazione al Coronavirus?
«La mia esperienza è questa: da un mese e mezzo lavoro nel reparto di rianimazione Covid-19 di Prato, dopo essere stato chiamato dalle graduatorie per pronta disponibilità. Non è facile lavorare con la tuta protettiva e tutti i dispositivi di sicurezza per tante ore all’interno del reparto… però quando si vedono i risultati e i miglioramenti capisci che ne è valsa la pena».
OPI Fi-Pt ha un gruppo di lavoro proprio dedicato ai giovani: quali sono i vostri progetti? Su quali temi state lavorando?
«Uno degli obiettivi è però riconfigurare il modello dell’infermiere su molti aspetti. Come a esempio la scuola. Fra le idee c’è quella di inserire l’infermiere nelle scuole e poi puntare sulla figura dell’infermiere famiglia. Per i giovanissimi puntiamo a fare incontri (non ancora fatti per l’emergenza Covid-19) con neolaureati che non lavorano. Un modo per aiutarli, risolvere dubbi, integrarli e supportarli».
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